Brutalismo: da movimento architettonico a trend globale

4 Ottobre 2024

La parola “Brutalismo” deriva da béton brut (in francese “cemento grezzo”), oltre a fare riferimento all’art brut di Jean Dubuffet e alla pittura informale. È un termine che si è diffuso nel Secondo Dopoguerra, soprattutto nel mondo dell’architettura, ma che nell’ultimo decennio ha trovato un’enorme diffusione pop.

Per trovare alcuni indizi riguardo alle sue origini dobbiamo tornare indietro agli anni Cinquanta. L’architetta inglese Alison Smithson è stata una delle prime a utilizzare questo termine nella narrazione di un progetto architettonico: una piccola casa a Soho descritta precedentemente utilizzando la definizione “estetica del capannone”. Di questa casa scrisse: “Se fosse stata costruita, sarebbe stata la prima esponente del Nuovo Brutalismo in Inghilterra, come dimostra il preambolo del capitolato: ‘È nostra intenzione in questo edificio avere la struttura interamente a vista, senza finiture interne dove possibile. L’appaltatore deve puntare a un elevato standard di costruzione di base, come in un piccolo capannone’.” 

Brutalismo: storia e opere dello stile architettonico

In un saggio intitolato The New Brutalism, pubblicato nel 1955 dalla rivista inglese The Architectural Review, il critico Reyner Banham descrive chiaramente le caratteristiche essenziali dello stile architettonico: “Memorabilità come immagine; chiara esposizione della struttura; onestà nell’uso dei materiali”.

Contestualmente al periodo storico e al sorgere di nuovi “-ismi” in ambito artistico e culturale, il teorico britannico afferma il Brutalismo che è prima di tutto “una bandiera, uno slogan, una politica adottata consapevolmente da un gruppo di artisti, a prescindere dall’apparente somiglianza o dissomiglianza delle loro produzioni”. In questo testo Banham analizza lungamente le caratteristiche del movimento architettonico e prova a inquadrare quali opere includere e soprattutto quali escludere.

Se Le Corbusier con la sua celeberrima Unité d’Habitation a Marsiglia (1948) è visto come uno dei precursori e riferimenti fondamentali dell’architettura brutalista, un altro grande maestro del Novecento come Louis Kahn e il suo Yale Center for British Art (1953) non rientrano invece nello stretto recinto formulato dal critico.

Nella seconda metà del Novecento, l’architettura Brutalista si diffonde globalmente, ma con linguaggi e significati diversi in ogni Paese. Nato come stile architettonico, oggi è da considerare non più come una vera e propria corrente teoricamente definita, ma assume piuttosto una forma estetica che attraversa gli stili. Esistono esempi di architettura brutalista in tutto il mondo, dall’Italia al Brasile, dal Qatar al Giappone, passando per Russia e Stati Uniti. La brutalità del cemento caratterizza molteplici monumenti, chiese, edifici residenziali, viadotti, complessi popolari, cimiteri e progetti incompiuti, dialogando con stili e materiali diversi per dar vita a interpretazioni diverse, eclettiche e incoerenti.

Possiamo quindi trovare un’ampia letteratura sul brutalismo e le sue declinazioni locali. Tra quelle più meritevoli di menzione c’è la recente pubblicazione Brutalist Italy: Concrete architecture from the Alps to the Mediterranean Sea, dei fotografi Roberto Conte e Stefano Perego. Anche l’editore Phaidon ha appena pubblicato grande compendio globale dell’architettura brutalista, intitolato Atlas of Brutalist Architecture, scegliendo di includere anche edifici che ormai non esistono più.

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Estensione del Cimitero, Jesi. Leonardo Ricci (1984-1994). Foto: Stefano Perego.

Il ritorno di interesse sull’architettura brutalista oggi

Ma è sui social e sulle piattaforme di condivisione di fotografie, grazie al capillare lavoro di appassionati di architettura e non addetti ai lavori, che il Brutalismo ha la sua massima diffusione. È quindi altrettanto interessante analizzare il Brutalismo anche al di fuori del suo stretto contesto architettonico, guardando anche alle interpretazioni di un pubblico di amatori.

Un articolo del giornale online Il Post guarda alle motivazioni che hanno portato al recente revival dell’architettura brutalista: “Gli edifici convenzionalmente associati allo stile brutalista sono oggi apprezzati da alcune persone per la precisione geometrica e il rigore estetico, oltre che per la storia che nella maggior parte dei casi ciascuno di essi testimonia. Da altre persone sono invece considerati architetture esteticamente sgradevoli e anonime, simbolo di degrado, abbandono e ghettizzazione sociale, al punto che spesso si discute della possibilità e in alcuni casi necessità di demolirli. Gli edifici sono, cioè, in parte oggetto dello stesso disprezzo e delle critiche che sancirono la fine del Brutalismo all’inizio degli anni Ottanta.” Il giornalista statunitense Brad Dunning su GQ la definisce il Brutalismo “la musica techno dell’architettura, spoglia e inquietante.”

Non c’è da stupirsi se il termine Brutalismo viene utilizzato in modo molto più ampio, spesso improprio. Gli è toccata una sorte simile a quella del minimalismo: un concetto che si è diffuso così tanto perdere un po’ la sua natura originaria e una precisa definizione. È diventato un hashtag, un’etichetta da applicare facilmente. Non ci sono solo gli edifici o gli interni brutalisti, ma la grafica brutalista, la moda brutalista, il branding brutalista, la cucina brutalista…